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Hegel, elenctica ed etica in Severino
di Leonardo Tonini

14 ottobre 2016


Secondo Hegel, il vero è l’intero, cioè il tutto nella sua unità, quella cosa di cui non si può pensare a niente di escluso, niente al di fuori di esso. Questa totalità è vera, è cioè esistente per definizione. Sappiamo come Hegel risolve la contraddizione, secondo lui apparente, della non percepibilità dell’insieme come un tutto: l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo, è cioè un risultato del divenire. [1] Conosciamo anche la critica che Emanuele Severino muove a questa concezione. In sostanza, il filosofo bresciano dice: come è possibile che l’intero manchi di qualcosa in un dato momento e che questo difetto sia colmato da una condizione che in questo momento non esiste? Per comprendere questa posizione, Severino cita spesso l’esempio della legna e della cenere. Nell’illusione comune (la follia che è fede nell’esistenza del divenire) la legna diventa cenere, quindi avviene un processo che trasforma nel tempo la legna in cenere, con la conseguenza che la legna in un dato momento finisce nel nulla e la cenere compare dal nulla. Ma, dice Severino, se il nulla propriamente non esiste perché non si può immaginare qualcosa al di fuori dell’intero (se no, non è di intero che stiamo parlando) come è possibile questo processo di nullificazione dell’esistente e di creazione dal nulla di ciò che ancora non esiste? Pensando il divenire, dobbiamo immaginare l’esistenza del nulla, cioè di qualcosa al di fuori dell’intero, il che è contraddizione.

La soluzione di Severino è affascinante e in un primo tempo, devo dire, che mi è sembrata bizzarra. Il mondo così come è percepito dall’uomo è solo un eterno apparire degli eterni, entro il cerchio della nostra percezione. Quindi noi vediamo sorgere sull’orizzonte della percezione gli eterni (le essenze eterne) e li vedremmo a un certo punto scomparire, tramontare.

Da qui si capisce bene che ciò che noi vediamo dell’intero è solo un parte, una manifestazione antropologica, e quindi abbiamo la visione dell’eterno sorgere e tramontare degli eterni e scambiamo questo fatto antropologico per una proprietà dell’esistere delle cose. Un po’ come quando si credeva che la Terra fosse al centro dell’universo: percependola noi come immobile, ci siamo immaginati per secoli che fosse realmente ferma; abbiamo dato sostanza a una nostra credenza.

È un tipico comportamento umano quello di credere che la nostra percezione sia la realtà intrinseca alle cose. Quando nel XVI secolo Galileo Galilei inviò un “occhialino per vedere le cose minime” [2] al principe Federico Cesi diede dignità scientifica a una invenzione di qualche anno precedente che aveva la straordinaria capacità di rendere visibile l’invisibile. Sotto la percezione dell’occhio esisteva un universo di entità che si muovevano e si moltiplicavano. Nessuno prima di allora si era immaginato che esistesse qualcosa di vivo al di sotto del visibile.

Oggi, basti pensare al CERN e alla fisica subatomica, si scopre che a energie superiori esistono altri stati della materia. Il bosone di Higgs, pensato 30 anni fa, è stato possibile rilevarlo solo nel 2015 grazie al continuo potenziamento della tecnologia. Eppure si sta parlando di un componente fondamentale della materia.

Ma Severino col suo pensiero va oltre questo approccio tecnologico che, secondo lui, non fa altro che aumentare il raggio di ciò che è percepito dall’uomo, cioè di quel “cerchio dell’apparire” [3] che è la totalità degli enti che appaiono, che escono dall’ombra e rientrano nell’ombra.

Come già fecero il cannocchiale e il microscopio nel XVI secolo, la tecnologia non può far altro che aumentare il cerchio del percepito, ma l’intero è ben più grande, il tutto eterno è non incompiuto, non manchevole. [4]

Per spiegare l’eterno variare delle cose che è effettivamente davanti ai nostri occhi, che è il sopraggiungere degli eterni, Severino ci dice che la totalità del cerchio attuale (del percepito) è oltrepassato dal cerchio non attuale, in uno sviluppo senza fine. E questo progresso non è, come fino ad ora è sembrato, il divenire che crea dal nulla gli enti e li spedisce nel nulla, ma è l’eterno apparire degli eterni, in un infinito oltrepassamento, che Severino chiama Gloria. [5]

La mia domanda, a questo punto è stata: come possiamo dare fondamento a questa teoria? Come possiamo, cioè, affermare che questa teoria sia vera?

Il collegamento tra la teoria e la realtà è per Severino l’Elenchos. È questo l’argomento fondante della logica aristotelica. Se, infatti, il principio di non contraddizione è “il più fermo di tutti i principi” e fonda la sua esistenza sull’evidenza, è tuttavia l’Elenchos che, dimostrandone la assoluta inconfutabilità, ne dimostra l’esistenza e quindi la validità. “L’affermazione che l’essere non è il non essere deve venire certamente negata sin tanto che non se ne veda il valore” [6] dice Severino, lasciando intendere una identità tra esistenza e verità, cosa che avviene quando essa è capace di togliere la propria negazione.

Secondo Aristotele il principio di non contraddizione non può essere dimostrato essendo un principio che fonda la sua forza sull’evidenza e che non necessita quindi di altri principi che lo giustifichino. Chi vuole negare il principio di non contraddizione, quindi, è costretto a dire che “se esso non è valido, allora non affermo il principio di non contraddizione”. Cioè non può negarlo e affermarlo nel medesimo tempo perché, se lo facesse, affermerebbe l’esistenza del principio di non contraddizione. Si arriva quindi a quella verità dell’essere come è pensata da Parmenide [7]: l’essere è e il nulla non è, che se anche non può essere dimostrata, non può nemmeno essere confutata, perché l’essere è il tutto, l’intero, e non si può pensare al niente come qualcosa al di fuori, anche solo come “luogo” da cui le cose provengono e in cui ritornano.

Anche Heidegger, per Severino, sbaglia nell’intendere l’essere come presenza. La presenza è di fronte all’uomo perché l’uomo è in grado di percepire l’essere (o meglio l’apparire dell’essere), ma non è l’essere non più di quanto l’illusione del divenire sia l’essere. Non più di quanto la sensazione che la Terra sia immobile, corrisponda alla realtà. Anche i più grandi filosofi sbagliano, secondo Severino, e confondono le sensazioni date dalla struttura del cervello umano in una verità, il modo del percepire per la verità del percepito. Lo sbaglio originario, quello da cui poi tutti gli altri derivano, resta sempre la fede nel divenire, l’idea appunto che le cose possano essere generate dal nulla e ritornino nel nulla.

Non sono queste affermazioni peregrine perché da esse discendono due proposte di etica. In Hegel, la fede nel divenire raggiunge il più alto livello e la fede nel divenire è fede nella possibilità dell’uomo di intervenire per trasformare il divenire. E questo, come sappiamo, può portare a pericolose deviazioni. In Heidegger, invece, pensare l’essere come presenza significa fare dell’uomo il pastore, o il custode, dell’essere e da qui a pensarsi come il paladino dell’essere, il passo è breve.

L’etica che scaturisce dalla visione parmenidea, o severiniana, dell’essere, invece, parte dal superamento del principio antropologico, che sposta all’esterno di sé meccanismi epistemici propri dell’essere umano, per approdare alla condanna di ogni intervento dell’uomo finalizzato a mutare l’eterno apparire degli eterni, e va contro ogni fede nella possibilità dell’esistenza del divenire.


[1] «Il vero è l’intero (Das wahre ist das Ganze). Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente Resultato, che alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità, soggetto o divenir-se-stesso» (G.F.W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. 1, “Prefazione”, [20], trad. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 15.
[2] G. Galilei, Opere, vol. 1, a cura di F. Flora, Ricciardi, Milano 1953, p. 125.
[3] E. Severino, La strada, Rizzoli, Milano, 1983, pp. 101-107.
[4] “non incompiuto” [ouk ateleuteton], “non manchevole” [oulon achineton] Sulla natura, fr. 8, vv. 33, 38) Per le citazioni del filosofo di Elea, ho consultato D. Zucchello, Parmenide. Sulla natura, Limina Mentis, Villasanta MB 2015.
[5] “Se il variare delle cose è il sopraggiungere degli eterni allora Gloria significa che questo sopraggiungere non ha mai termine, è uno sviluppo all’infinito che oltrepassa tutto ciò che va, via via, sopraggiungendo. Allora oltrepassa anche tutte le forme del mito che noi possiamo chiamare, raccogliendole tutte in una categoria, le forme della terra isolata dal destino. Gloria è l’infinito oltrepassamento.”, dall’intervento di Emanuele Severino al Festival della Filosofia di Modena, edizione 2014, riportato integralmente in http://www.ritirifilosofici.it/?p=3404
[6] E. Severino, L’essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 40.
[7] «Bisogna che il dire e il capire siano “essere”: esiste infatti l’“essere” / e nulla “non è”: su questo io a riflettere ti esorto» (D. Zuchello, Parmenide. Sulla natura, cit., fr. 6, vv. 1 e 2).




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